della nascitura serie: IL LABORATORIO DELLO SCIENZIATO PAZZO
Alla fine della giornata lavorativa sei sempre devastato. Tipo: capelli scompigliati dal continuo passarci le mani per la disperazione, camicia fuori dai pantaloni solo per metà, una manica più in su dell’altra, il bottone del colletto slacciato e la cravatta allentata, a penzolare come un’appendice estranea al resto dell’abbigliamento.
Si, ecco, la cravatta sta all’impiegato come il cappio sta al condannato a morte. Che ci sono forse morti peggiori dell’impiccagione, ma torture peggiori della cravatta no. Forse la celeberrima goccia cinese (che se Marco Polo non se la portava dietro faceva un favore a molti), ma non ci scommetterei. Insomma, una rottura di cazzo.
Chuck mi aspettava al bar di Giò per l’happy hour. Che poi cosa ci sarà di happy in cibo scadente che a casa la mamma lo fa più buono non lo so. Forse che paghi solo la birra che ti bevi? Speriamo non sia annacquata, allora.
Insomma, entro al bar, ma lui non c’è. Esco per telefonare a Chuck che si degna di rispondere al cellulare solo al trentesimo o quarantesimo squillo.
“Oh, Tito, non saprai mai cosa ho scoperto… è… è…”.
Io sbuffo perché sa che non mi piace essere chiamato Tito. Ok, ognuno ha il suo soprannome, però fanculo.
“E cosa avresti trovato di così fantastico da far saltare un acca-acca?”.
Acca-acca è il nome in codice per happy hour. Si capisce, no?
“Non te lo posso dire, non ci crederesti! Vieni qua! Ti do l’indirizzo!”.
Ventiquattro minuti e sette strade sbagliate dopo, sono dove Chuck mi ha convocato.
Praticamente era schiattato uno zio o un cugino o un chissacosa di suo padre, che gli ha lasciato in eredità una villetta fuori città. Una stamberga con il tetto cadente, il giardino non curato che pare la giungla, i mobili vecchi e tarlati, una cantina umida e malsana e…
Cazzo.
Mi porta in ‘sta cazzo di cantina, apre una porta, scendiamo un’altra scala e mi compare davanti… un laboratorio? In una stanza circolare del diametro di una quarantina di metri, vedo schermi di computer, alambicchi e provette varie, macchinari che non sai a cosa diavolo servano, poi cavi, tubi… roba che il laboratorio di Dexter gli fa una pippa.
“Hai visto?” mi dice, esaltato.
Io ho gli occhi spalancati che la pupilla si è disidratata, la bocca spalancata che le mosche ci entrano e la lingua a penzoloni. Lo guardo e a fatica gli chiedo:
“Che cazzo è?”.
“E che minchia ne so? Guardiamo?”.
Si mette a gironzolare guardando e topiccando qua e là i vari macchinari. Io lo fermo.
“No, cavolo, e se combini qualche casino?”.
Lui mi guarda e fa spallucce.
“Ci sarà un qualcosa che spiega tutto, no?”.
“Un libretto di istruzioni, dici?”.
“Sì, non hai cercato?”.
“No, mica lo uso il libretto delle istruzioni, io”.
“Nemmeno per gli elettrodomestici?”.
“Nemmeno”.
Lo guardo perplesso.
“Qui mi sembra ci sia qualcosa di più complicato, di un elettrodomestico”.
Lui fa di nuovo spallucce. Mi fa venire il nervoso. Sembra gli freghi niente di niente. Deve essere per questo che alla sua età non ha un lavoro, non ha una fidanzata, sta ancora a casa da mamma e papà. Che va bene, a parte il lavoro, anche io sono nella stessa situazione, ma… torniamo al laboratorio?
Ci mettiamo a ravanare qua e là cercando qualcosa di cartaceo, che sembri un progetto, un quaderno di appunti, qualsiasi cosa che spieghi il funzionamento di tutti questi macchinari.
“Oh” mi dice, “Ho pensato; ma se il mio zio era così informatico, non è che ha tutto in uno dei computer?”
“Era tuo zio o tuo cugino?”.
“Fa differenza?”.
Sbuffo. E mentre lo faccio accende l’interruttore del primo schermo che trova vicino a sé. Io corro verso di lui urlando “nooooooooo!” come in quelle scene a rallentatore della tv, ma ormai tutto è fatto. Lo schermo si illumina, una ventola inizia a girare, si ode il tipico suono di un computer in accensione, un qualcosa sotto un telo prende luce.
“Cazzo, ma come fai a essere sempre così stronzo?”.
Chuck fa di nuovo spallucce, e intanto solleva il telo. Vediamo una piattaforma di metallo, incorniciata da dei tubi che formano una specie di corrimano. Chuck fa per salirci, ma io lo fermo. Una voce femminile, da un altoparlante, annuncia:
“La vostra macchina del tempo è stata avviata: prego selezionare la data di destinazione e il tempo di permanenza”.
“Minchia” dico io.
“Minchia” dice Chuck, “E’ la stessa voce della tipa dell’Avast!”.
Io lo guardo storto, lui fa spallucce. Qualche giorno dovrò amputargliele quelle spallucce. Sbuffo.
“Oh, dove andiamo?” mi dice.
“Andare? Ma sei scemo? Vorrai mica…”.
Mi blocco. Sì, mi blocco. Perché mentre parlo gesticolo e mentre gesticolo, la mano destra prende dentro la cravatta.
Cravatta. Macchina del tempo.
La fate da soli l’associazione di idee o ve la devo spiegare?
“Devo guardare una cosa su Wikipedia, tiri fuori l’iPhone, per favore?”.
“Ma con tutto questo ben di Dio vuoi che non ci sia una connesione internet?”
“Passami il tuo iPhone”.
“Perché?”
“Perché quello so usarlo”.
Fa spallucce e mi passa l’ìPhone.
“Stai facendo lo sguardo” mi dice.
“Quale?”
“Quello sornione”.
Inizio a trafficare col suo cellulare.
“E hai quel sorrisino”.
“Quale?” gli chiedo, sapendo già la risposta.
“Quello da serial killer” mi dice.
Andiamo e facciamo quello che dobbiamo. Prendiamo il tizio che ha inventato le cravatte e lo sommergiamo di botte mentre è su una latrina a cacare. Torniamo nel nostro tempo dopo meno di quindici minuti, azionando il telecomando di cui è datata la macchina del tempo (mica stronzo lo zio o il cugino del mio amico). Siamo tutti sporchi di sangue. Io sono anche soddisfatto, Chuck trema di paura.
“Abbiamo commesso un crimine, capisci?” mi dice.
“No”, gli spiego, “Non abbiamo fatto nulla. Abbiamo ucciso uno per un’invenzione che quindi non ha potuto fare, e quindi ora non esiste, e noi non siamo tornati indietro nel tempo per ucciderlo”:
“Eh???”.
“E’ un paradosso temporale”.
“Ma… quindi se noi non siamo tornati indietro ad ucciderlo, lui ha potuto inventare le cravatte, e quello che abbiamo fatto noi non è servito”.
“Non ha inventato le cravatte: è morto”.
“Ma se non le ha invetate noi non siamo tornati indietro nel tempo a ucciderlo”.
“No, lo abbiamo fatto”.
“Ma se le cravatte non ci sono, allora perché saremmo dovuti tornare indietro nel tempo a uccidere chi non le ha inventate?”.
“Lo abbiamo fatto, e ora siamo tornati nella nostra realtà dove le cravatte non esistono”.
“Quindi abbiamo creato una dimensione parallela?”.
“Non lo so”.
“Come non lo so? E se invece fossimo tornati al punto di partenza in cui le cravatte esistono e quindi il viaggio e l’assassinio fosse stato inutile?”.
“Dici che qui esistono ancora le cravatte?”.
“Si. E peggio: la nostra dimensione potrebbe essere stata cancellata, e ora arriveranno degli omini quantici a smantellare tutto”.
Cioè, onestamente: io non mi sono manco posto il problema. Sono partito, ho fatto, sono tornato. Ora, non so quale paradosso possa essersi creato, o quale no. Queste sono cose da nerd segaioli brufolosi che leggono fumetti. E io non ho mai letto fumetti né avuto acne. Quindi, cazzo ne so?
Decidiamo di uscire dal rifugio per controllare com’è il mondo. Con la nostra solita fortuna non incontriamo nessuno. Andiamo a casa mia. I miei sono fuori.
Appena arrivo corro all’armadio: lo apro e non vedo più cravatte. Esulto. Mitico, fantastico, incredibile, gol!!!
“Guarda“ mi dice invece Chuck, indicando dentro l‘altra anta dello stesso armadio.
Cazzo.
Gonne. Il mio fottuto armadio e pieno di fottute gonne.
Corro in salotto e accendo la televisione. Tutti gli uomini non indossano cravatte ma indossano gonne.
“Bel casino, eh?” mi dice Chuck facendo spallucce.