30 agosto 2011

Phantom Lady - poi dicevano che Superman...


Buonasera e bentornati dalle vacanze. Io personalmente NON sono bentornato ma vabbè.

Per consolarci parliamo di LEI.
Avrete tutti quanti pensato, o sentito qualcuno dire:
"ma come cazzo è possibile che Clark Kent si tiri via gli occhiali, si pettini i capelli all'indietro, e nessuno lo riconosca come Superman".
Domanda più che lecita. Lasciamo stare quanto l'Azzurrone sia Dickery, questo lo dicono altrove. Ebbene: c'è qualcuno peggio di lui. Ed è proprio la discinta signorina di cui vi voglio parlare.
Praticamente, lei, cosa fa? E' in giro per i cazzi suoi (di solito con il papà, ex commissario di polizia, e con il fidanzato, poliziotto, tanto perché, anche se la mamma non appare mai, sembra mancarle la figura paterna...)), vede una situazione di pericolo... si mette nel costume da bagno che vedete nell'immagine (a volte anche qualcosa di "meno coprente"), combatte il cattivo di turno (sotto gli occhi di papà e fidanzato che NON la riconoscono), si riveste e se ne va tranquilla (tra parentesi, la sconfitta del cattivo di turno, avviene dopo aver preso una discreta dose di mazzate ed essere finita legata da qualche parte...).
E POI CE LA MENIAMO PERCHé SUPERMAN SI TOGLIE GLI OCCHIALI?????
Esilarante la scena, in un episodio, in cui un nemico (l'Avvoltoio, non quello dell'Uomo Ragno, però) la vede mentre si trav... si mette in cost... si toglie i vest... insomma, mentre è mezza-normale-mezza-Phantom-Lady e la riconosce. Tutta vestita, o tutta in costume da bagno, no?
Che storia, la Golden Age!!!!

carrellata di immagini; noterete il tema ricorrente del bondage, e il tenore edwigefenechiano delle storie... tuttosommato una discreta lettura, niente di che... strano non ne abbiano mai fatto un film

11 agosto 2011

Tales To Astonish #12 - Psionici 1

IMPEDITE IL MASSACRO AD ANFIELD ROAD!!!




Nichols attendeva impaziente fuori dallo stadio, fumandosi il suo classico sigaro. Quasi un clichè, pensò.
«Questo vizio ti ucciderà» gli disse la Kowalsky.
«Oh, la nostra hooligan preferita» ironizzò lui. La inglese, leggera ma insistente, lo innervosiva.
«Allora? Cosa devi dirmi?» le chiese lui per tagliare corto, mentre la voce di lei gli arrivava direttamente nel cervello.
«Nulla. Non è il nostro uomo».
Nichols sbuffò.
«Ho fatto la zoccola per niente» rise di nuovo lei, «Stasera lo scarico e sparisco nel nulla».
«Oh, certo, sedurre un venticinquenne alto e con due spalle così deve averti proprio scocciata.».
«Diciamo che ho un target più elevato rispetto a quello di un capopopolo tutto calcio e birra».
Lui rise.
«Il nostro bersaglio deve comunque essere allo stadio. Nello stadio».
«Non penserai che possa sondare mentalmente quarantacinquemila persone, vero? Faccio già fatica a tenere il contatto telepatico con te».
«Ok, ho capito, zuccherino, riposati. E poi Hernandez lo paghiamo per questo, no? Contattalo e digli di fare un giro».
«Ciao capo!» disse Herandez direttamente nella testa di Nichols.
«Hai visto, capo? Teleconferenza telapatica» spiegò la donna.
«Brava Kowalsky, adesso basta spacconerie, e mettetevi al lavoro».

Pablo Hernandez, ispanico, trasferitosi in Canada a quindici anni, da clandestino. Lui percepisce quelli come loro. Karen Kowlasky, ex spia russa, telepate, ne conferma l’identità. Nichols, ex pilota RAF, li neutralizza. Oggi sono in azione allo Stadio Anfield di Liverpool, meglio ed erroneamente noto come Anfield Road (quello è l’indirizzo dove si trova), dove fonti sicure danno la presenza di un “agitatore“, un agente telepatico che dovrebbe aizzare la tifoseria di casa contro quella ospite nel corso di una gara decisiva per la corsa alla vittoria della Premier League.

Hernandez, travestito da steward, iniziò a girare per la curva della KOP. La partita non era ancora iniziata, ma lo stadio era già pieno. Come sempre, i tifosi Reds cantavano You’ll Never Walk Alone, mentre dalla parte opposta, i tifosi dei Blues londinesi, tentavano di coprirli di fischi.
Pablo non aveva mai capito come funzionasse il suo potere: imitare la capacità di quelli come lui. Una volta, in pieno centro di Toronto, iniziò a sentire i pensieri di tutti i presenti direttamente nel proprio cervello. Gli sembrò di impazzire. Fu proprio il telepate che aveva imitato a soccorrerlo. Patrick Powell, pace all’anima sua. Gli insegnò a controllarsi e a gestirsi, e più tardi lo presentò a Nichols stesso. Anni dopo, proprio questi lo reclutò per l’Organizzazione, come membro della squadra di Nichols.

Il giovane iniziò a gironzolare per gli spalti, guardandosi attorno sperando di trovare il ricercato. Ad un certo punto gli venne in mente che se la Kowalsy non poteva sondare tutti presenti, nemmeno lui poteva controllarli uno per uno. Stava per prendere il cellulare per chiamare Nichols e protestare, quando un altro steward lo richiamò.
«Non è la tua zona, questa».
Gli avrebbe tirato un cazzotto, ma si trattenne.
«Ah, scusa, sono nuovo» si giustificò.
«No, non è una scusa, cazzo! Dobbiamo stare attenti a queste cose, cazzo! La fottuta sicurezza dello stadio è nelle nostre mani, dobbiamo…»
Il giovane sbuffò e si ridiresse verso l’aerea a lui assegnata riflettendo su come l’aplomb inglese fosse in realtà una leggenda. Urtò un uomo sui quaranta, dall’aspetto probabilmente un pakistano, che gli si rivolse contro nella sua lingua, in modo poco educato.
Estrasse il cellulare per chiamare Nichols, quando lo vide e riconobbe. Poche file sotto di lui, tre adolescenti stavano litigando con due signore di mezz’età. Dall’altra parte due ragazze stavano prendendosi per i capelli.
Più in su altri due tifosi stavano litigando sul fatto se sperare o meno un ritorno di Michael Owen nel club.
«Ma cazzo, sono tutti stronzi, oggi? Va bene il clima della partita, ma…»
Fu in quel momento che ebbe l’illuminazione.
«Sto replicando il potere dell’agitatore! E’ qui vicino!».
Provò ancora ad estrarre il cellulare per chiamare Nichols, quando riconobbe chi stava cercando: l’omino delle patatine e delle bibite. Rintascò il suo Samsung e gli si avvicinò apparendo tranquillo.
«Signore, mi deve seguire».
«Cosa?» chiese quello inebetito.
«La prego. Non faccia storie».
Lo prese gentilmente per un braccio, mentre un ragazzino chiedeva la bibita che aveva già pagato. Il padre del ragazzino si innervosì e iniziò a urlarle.
«L’ho pagata, quella bibita, stronzo!».
Pablo strinse il venditore più forte e lo trascinò via a forza. L’uomo si alzò per inseguirli, ma goffamente cadde addosso ad una ragazza bionda, che si mise a strillare. Il suo fidanzato lo spintonò.
«Hei ciccione, giù le mani dalla mia donna!»
«Appunto!» intervenne la moglie dell’uomo e madre del ragazzino.
«Scusa, cazzo, io… io… ho perso la calma dietro a quel… appena passa un altro con le bibite ve ne offro una e ci sistemiamo, ok? In fondo, è stato tutto uno stupido incidente, no?»
«Bella, capo!» disse il giovane infuriato fino a due secondi prima, mentre la sua ragazza faceva una smorfia poco felice.
I due tifosi, intanto constavanoo che Owen era troppo fragile e vecchio, non aveva mai vinto un cazzo e poteva restarsene a marcire a Manchester, tornare a Newcastle o addirittura a Madrid.
Le due ragazze che si accapigliavano si abbracciarono, facendo pace, mentre i due adolescenti erano diventati amici delle donne di mezz’età. «Vi presento le mie nipotine» disse una delle due.

Hernandez fece entrare Nichols e la Kowlasky nello stanzino dove aveva chiesto al venditore di bibite di attenderlo. Questi li vide, e scoppiò a piangere.
«Vi prego, hanno preso i miei figli e mia moglie! Li uccideranno se non…»
«Mente» sentenziò la Kowlasky quasi infastidita.
Il venditore fece per estrarre qualcosa dalla giacca quando Nichols congiunse le mani e lo fulminò con una scarica elettrica. L’uomo cadde a terra e si sentì una sottile puzza di bruciato.
«Aveva un pistola» spiegò tranquillamente la donna a Hernandez.
«Ho capito, ma…».
«Non è morto, solo svenuto» disse Nichols controllando lo stato di salute dell’uomo.
«Chiamo i bobbies?».
Nichols fece cenno di no e chiamò con il cellulare un numero alla cui risposta disse solo:
«E’ qui».

Più tardi l’uomo venne trasportato da degli agenti con un automobile della polizia verso destinazione sconosciuta, e i tre uscirono dallo stadio, mentre da esso proveniva un urlo di esultanza.
La Kowlasky si tenne la testa come per un dolore improvviso.
«Chi ha segnato?» chiese ansioso Hernandez.
«Tale Torres. Può essere?».
«Fanculo» rispose il ragazzo.
«Bah, calcio. Il rugby, piuttosto, quello è uno sport vero» commentò Nichols.
«Dove lo porteranno?» chiese Hernandez al suo capo.
Questo lo guardò, e tirò fuori un sigaro dalla tasca del cappotto. Gli fece un gesto chiedendogli se volesse fare un tiro, ma, sempre a gesti, il ragazzo rifiutò.
«Non so se posso dirtelo» rispose l’uomo tirando una prima boccata.
«Non hai ancora passato la selezione» disse la donna, sicura sui suoi tacchi altissimi.
«Però oggi sei stato bravo, Powell sarebbe fiero di te. Domani ti chiamo, ti faccio sapere».
Nichols si avviò verso la metropolitana, la Kowalsky fece il gesto per chiamare un taxi.
«E se non vengo preso?» chiese Hernandez.
«Non ci sentirai né vedrai mai più, tranquillo. Non siamo di quelli che fanno sparire la gente. Noi la salviamo. E comunque, da quel poco che posso giudicare, ti sei comportato bene, oggi».
Nichols sparì giù per la scalinata dell’Underground, la Kowalsky sparì a bordo di un taxi.
Lui rimase lì, a guardarsi intorno.
«Tonerò allo stadio a guardarmi la partita. In fondo, ne ho diritto: sono uno steward».



05 agosto 2011

Tales To Astonish #11: La Macchina Del Tempo

della nascitura serie: IL LABORATORIO DELLO SCIENZIATO PAZZO


Alla fine della giornata lavorativa sei sempre devastato. Tipo: capelli scompigliati dal continuo passarci le mani per la disperazione, camicia fuori dai pantaloni solo per metà, una manica più in su dell’altra, il bottone del colletto slacciato e la cravatta allentata, a penzolare come un’appendice estranea al resto dell’abbigliamento.
Si, ecco, la cravatta sta all’impiegato come il cappio sta al condannato a morte. Che ci sono forse morti peggiori dell’impiccagione, ma torture peggiori della cravatta no. Forse la celeberrima goccia cinese (che se Marco Polo non se la portava dietro faceva un favore a molti), ma non ci scommetterei. Insomma, una rottura di cazzo.
Chuck mi aspettava al bar di Giò per l’happy hour. Che poi cosa ci sarà di happy in cibo scadente che a casa la mamma lo fa più buono non lo so. Forse che paghi solo la birra che ti bevi? Speriamo non sia annacquata, allora.
Insomma, entro al bar, ma lui non c’è. Esco per telefonare a Chuck che si degna di rispondere al cellulare solo al trentesimo o quarantesimo squillo.
“Oh, Tito, non saprai mai cosa ho scoperto… è… è…”.
Io sbuffo perché sa che non mi piace essere chiamato Tito. Ok, ognuno ha il suo soprannome, però fanculo.
“E cosa avresti trovato di così fantastico da far saltare un acca-acca?”.
Acca-acca è il nome in codice per happy hour. Si capisce, no?
“Non te lo posso dire, non ci crederesti! Vieni qua! Ti do l’indirizzo!”.

Ventiquattro minuti e sette strade sbagliate dopo, sono dove Chuck mi ha convocato.
Praticamente era schiattato uno zio o un cugino o un chissacosa di suo padre, che gli ha lasciato in eredità una villetta fuori città. Una stamberga con il tetto cadente, il giardino non curato che pare la giungla, i mobili vecchi e tarlati, una cantina umida e malsana e…
Cazzo.
Mi porta in ‘sta cazzo di cantina, apre una porta, scendiamo un’altra scala e mi compare davanti… un laboratorio? In una stanza circolare del diametro di una quarantina di metri, vedo schermi di computer, alambicchi e provette varie, macchinari che non sai a cosa diavolo servano, poi cavi, tubi… roba che il laboratorio di Dexter gli fa una pippa.
“Hai visto?” mi dice, esaltato.
Io ho gli occhi spalancati che la pupilla si è disidratata, la bocca spalancata che le mosche ci entrano e la lingua a penzoloni. Lo guardo e a fatica gli chiedo:
“Che cazzo è?”.
“E che minchia ne so? Guardiamo?”.
Si mette a gironzolare guardando e topiccando qua e là i vari macchinari. Io lo fermo.
“No, cavolo, e se combini qualche casino?”.
Lui mi guarda e fa spallucce.
“Ci sarà un qualcosa che spiega tutto, no?”.
“Un libretto di istruzioni, dici?”.
“Sì, non hai cercato?”.
“No, mica lo uso il libretto delle istruzioni, io”.
“Nemmeno per gli elettrodomestici?”.
“Nemmeno”.
Lo guardo perplesso.
“Qui mi sembra ci sia qualcosa di più complicato, di un elettrodomestico”.
Lui fa di nuovo spallucce. Mi fa venire il nervoso. Sembra gli freghi niente di niente. Deve essere per questo che alla sua età non ha un lavoro, non ha una fidanzata, sta ancora a casa da mamma e papà. Che va bene, a parte il lavoro, anche io sono nella stessa situazione, ma… torniamo al laboratorio?
Ci mettiamo a ravanare qua e là cercando qualcosa di cartaceo, che sembri un progetto, un quaderno di appunti, qualsiasi cosa che spieghi il funzionamento di tutti questi macchinari.
“Oh” mi dice, “Ho pensato; ma se il mio zio era così informatico, non è che ha tutto in uno dei computer?”
“Era tuo zio o tuo cugino?”.
“Fa differenza?”.
Sbuffo. E mentre lo faccio accende l’interruttore del primo schermo che trova vicino a sé. Io corro verso di lui urlando “nooooooooo!” come in quelle scene a rallentatore della tv, ma ormai tutto è fatto. Lo schermo si illumina, una ventola inizia a girare, si ode il tipico suono di un computer in accensione, un qualcosa sotto un telo prende luce.
“Cazzo, ma come fai a essere sempre così stronzo?”.
Chuck fa di nuovo spallucce, e intanto solleva il telo. Vediamo una piattaforma di metallo, incorniciata da dei tubi che formano una specie di corrimano. Chuck fa per salirci, ma io lo fermo. Una voce femminile, da un altoparlante, annuncia:
“La vostra macchina del tempo è stata avviata: prego selezionare la data di destinazione e il tempo di permanenza”.
“Minchia” dico io.
“Minchia” dice Chuck, “E’ la stessa voce della tipa dell’Avast!”.
Io lo guardo storto, lui fa spallucce. Qualche giorno dovrò amputargliele quelle spallucce. Sbuffo.
“Oh, dove andiamo?” mi dice.
“Andare? Ma sei scemo? Vorrai mica…”.
Mi blocco. Sì, mi blocco. Perché mentre parlo gesticolo e mentre gesticolo, la mano destra prende dentro la cravatta.
Cravatta. Macchina del tempo.
La fate da soli l’associazione di idee o ve la devo spiegare?
“Devo guardare una cosa su Wikipedia, tiri fuori l’iPhone, per favore?”.
“Ma con tutto questo ben di Dio vuoi che non ci sia una connesione internet?”
“Passami il tuo iPhone”.
“Perché?”
“Perché quello so usarlo”.
Fa spallucce e mi passa l’ìPhone.
“Stai facendo lo sguardo” mi dice.
“Quale?”
“Quello sornione”.
Inizio a trafficare col suo cellulare.
“E hai quel sorrisino”.
“Quale?” gli chiedo, sapendo già la risposta.
“Quello da serial killer” mi dice.


Andiamo e facciamo quello che dobbiamo. Prendiamo il tizio che ha inventato le cravatte e lo sommergiamo di botte mentre è su una latrina a cacare. Torniamo nel nostro tempo dopo meno di quindici minuti, azionando il telecomando di cui è datata la macchina del tempo (mica stronzo lo zio o il cugino del mio amico). Siamo tutti sporchi di sangue. Io sono anche soddisfatto, Chuck trema di paura.
“Abbiamo commesso un crimine, capisci?” mi dice.
“No”, gli spiego, “Non abbiamo fatto nulla. Abbiamo ucciso uno per un’invenzione che quindi non ha potuto fare, e quindi ora non esiste, e noi non siamo tornati indietro nel tempo per ucciderlo”:
“Eh???”.
“E’ un paradosso temporale”.
“Ma… quindi se noi non siamo tornati indietro ad ucciderlo, lui ha potuto inventare le cravatte, e quello che abbiamo fatto noi non è servito”.
“Non ha inventato le cravatte: è morto”.
“Ma se non le ha invetate noi non siamo tornati indietro nel tempo a ucciderlo”.
“No, lo abbiamo fatto”.
“Ma se le cravatte non ci sono, allora perché saremmo dovuti tornare indietro nel tempo a uccidere chi non le ha inventate?”.
“Lo abbiamo fatto, e ora siamo tornati nella nostra realtà dove le cravatte non esistono”.
“Quindi abbiamo creato una dimensione parallela?”.
“Non lo so”.
“Come non lo so? E se invece fossimo tornati al punto di partenza in cui le cravatte esistono e quindi il viaggio e l’assassinio fosse stato inutile?”.
“Dici che qui esistono ancora le cravatte?”.
“Si. E peggio: la nostra dimensione potrebbe essere stata cancellata, e ora arriveranno degli omini quantici a smantellare tutto”.
Cioè, onestamente: io non mi sono manco posto il problema. Sono partito, ho fatto, sono tornato. Ora, non so quale paradosso possa essersi creato, o quale no. Queste sono cose da nerd segaioli brufolosi che leggono fumetti. E io non ho mai letto fumetti né avuto acne. Quindi, cazzo ne so?
Decidiamo di uscire dal rifugio per controllare com’è il mondo. Con la nostra solita fortuna non incontriamo nessuno. Andiamo a casa mia. I miei sono fuori.
Appena arrivo corro all’armadio: lo apro e non vedo più cravatte. Esulto. Mitico, fantastico, incredibile, gol!!!
“Guarda“ mi dice invece Chuck, indicando dentro l‘altra anta dello stesso armadio.
Cazzo.
Gonne. Il mio fottuto armadio e pieno di fottute gonne.
Corro in salotto e accendo la televisione. Tutti gli uomini non indossano cravatte ma indossano gonne.
“Bel casino, eh?” mi dice Chuck facendo spallucce.

04 agosto 2011

acqua vs gossip

http://sport.virgilio.it/indiscreto/marin-addio-alla-pellegrini-niente-rabbia-ma-federica-mi-ha-deluso.html

"Sto cercando di parlarne il meno possibile: dispiace vedere che ad un Mondiale è stato più importante il gossip rispetto alle gare – ha dichiarato Magnini – Non mi aspettavo certe voci, anche perché non c’è niente di vero in questa mia presunta storia con Federica”.


A me gira il culo per il fatto che, per una volta che il nuoto è sotto i riflettori, con il calcio a riposo, si parli più dei pettegolezzi a mò di vecchiette in fondo alla strada piuttosto che delle gare, dei nuotatori e delle medaglie.