31 dicembre 2014

ultimo dell'anno....


No, la mia festa non sarà così ma pazienza.
Quest'anno sono andato a vivere da solo,
non ho cambiato xxxxx
non ho cambiato xxxxxxxxx, si è allargata, ma non è stato un bene.
non ho fatto ferie (scelta),
non ho ripreso a nuotare "seriamente" (circorstanze),
ma per lo meno ho cercato di tirarmi fuori dalla stessa schifezza in cui sto. Che forse non è così schifezza. È "pena", c'è chi sta peggio di me. Ma anche chi sta meglio. Di solito si cerca di puntare alto... proverò sempre a fare così. Se non va... i mezzi a disposizione sono quelli. Io ci provo, non potete farmene una colpa.

30 dicembre 2014

I miei ragguardevoli capodanni

... o capidanno?
... o capidanni?
... o chissenefrega?

V era particolarmente amica con P, A, e M (quest'ultima donna, gli altri due uomini). I quali la invitavano tutte le volte che c'erano feste od occasioni particolari. Cioè, per uscire una sera normalmente a bere qualcosa no, zero, manco a parlarne. Ma se c'erano compleanni, anniversari, festeggiamenti allora sì.
Ebbene, correva l'anno 1999 e volevi mica che passasse il capodanno tra il 1999 e il 2000 da sola, no?
Quindi bisognava invitarla!!!! Ma... lei non abita nel nostro paesello, abita in un altro! Bisogna andarla a prendere! E riaccompagnarla! Vabbè, chiediamo a SimOwen (credo sia la prima volta che scrivo il mio nick qui dentro, dopo 8 anni quasi 9, fa strano), che lui è sempre disponibile, e si sa, con 'sta V c'ha pure avuto dei trascorsi. 
Fatto sta che SimOwen dice: "Va bene, vado a prenderla io V", pensando anche chissà che magari a capodanno è la volta che...
SimOwen va a prendere V insieme a P. V saluta P,  ringrazia P, parla con P, sale alla festa. 
Se ne sta tutto il tempo a parlare con M. A mezzanotte fa gli auguri a P, M ed A. Che comunque non erano gli unici invitati alla festa, eh!
Arriva l'ora di portarla a casa. SimOwen la accompagna insieme ad A (...). V parla con A, malmostoso come sempre, ringrazia A, malmostoso come sempre, nota che A è malmostoso (come sempre), chiede ad A cos'abbia che non vada. Lui, malmostoso come sempre, dice niente, e si fa portare a casa da SimOwen.

Passano due mesi circa, siamo a fine febbraio. C compie gli anni... bisogna invitare V!!! Ma... lei non abita nel nostro paesello, abita in un altro! Bisogna andarla a prendere! E riaccompagnarla! Vabbè, chiediamo a SimOwen (ormai mi sono autoabituato al suono del mio nickname).
"SimOwen, puoi andare a prendere V per il compleanno di C?", chiede P.
"No" risponde SimOwen pacato, calmo, tranquillo.
P fa una faccia strana, ma finisce lì (o così sembra).
Alla sera della festa, nella tavolata della pizzeria, c'è una sedia vuota. L (fidanzata del festeggiato) la nota subito e gli chiede: "Chi è che ti ha tirato il pacco?"
"Eh" risponde lui con rammarico, "Quella mignotta di  X. Xxxxxxxx".
P lo sente, e scatta subito: non può lasciare l'onore della sua amica indifeso:
"È stato SimOwen che non è voluto andare a prenderlo" disse indicando l'accusato con il dito.
"E comunque V è di Xxx Xxxxxx e non X. Xxxxxxxx ", puntualizza pure, perché tutti i puntini fossero sulle I. Non capisco perché non abbia anche detto che non è una mignotta, non di professione,  non all'epoca,
per lo meno, ma vabbè.
A questo punto, stizzito, SimOwen con una leggera staffilata degna della miglior Trillini (tirava ancora di scherma, all'epoca, giusto?) risponde:
"Raga, è amica vostra, non mia, andatela a prendere voi".
P rimane a bocca aperta. SimOwen capisce che è il momento di affondare e portare a casa la vittoria:
"A capodanno sono andata a prenderla, l'ho riaccompagnata, non mi ha detto grazie, non mi ha parlato per tutta la serata, forse non mi ha nemmeno fatto gli auguri. È amica vostra, andatevela a prendere voi".
P è annichilito e senza dire niente se ne torna al suo posto.
"Il cameriere ha portato il dolce", è stato il suo unico commento.

20 dicembre 2014

Al lavoro come a scuola? Forse peggio (Azzurro Impiegatizio, ma no, non è un racconto stavolta)

non è andata proprio così ma il senso è quello
L'altra notte ho fatto un sogno che mi ha lasciato uno strano senso di disagio. Ci ho riflettuto e ho capito perché.
Stavo spiegando, seduto al banco di scuola (!) con dei giocattoli (!) come funziona la tassazione iva ad una collega. Ad un certo punto arriva tutta incazzata il suo capo (è una donna, quindi dovrei scrivere "capessa", ma sembra che l'italiano non preveda questa parola, e che "capa" sia un'altra cosa) che mi ruba i giocattoli e mi urla contro:
"Il tuo è un lavoro consultativo" mi dice, "Dovresti fare la tua parte e non sorpassare gli altri".
Dopo un secondo di esitazione le rispondo, puntandole contro il dito:
"Ciccia, sto facendo una cosa che avresti dovuto fare tu tanto tempo fa".
Lei sobbalza, trattiene un singhiozzo e scappa  via con un'espressione a metà tra l'incazzata e il pianto.
Invece di svegliarmi soddisfatto per questa piccola vittoria onirica, mi sentivo a disagio.
Ho ripercorso il sogno e ho capito cos'era a infastidirmi: oltre ai giocattoli usati per la spiegazione, a non c'entrare nulla con il mondo lavorativo era l'ambientazione. E sì, perché oltre al banco, a essere "di scuola" era proprio tutta la "scenografia". Ricordo una scrivania, forse una lavagna. E il colore dei muri e la forma della stanza e delle finestre era molto simile a quella della mia scuola delle superiori. Magari con una passata di vernice fresca, ma era proprio quella.
Così, mentre facevo colazione, e mi lavavo i denti, e mi vestivo per andare al lavoro, ho riflettuto  a riguardo e ho raggiunto una conclusione che mi ha colpito come una sorta di fulmine:
la gente che ho conosciuto durante gli anni di scuola non era stupida (immatura, superficiale, disturbata, insulsa) come quella che ho conosciuto nel mondo del lavoro. E quelli di allora erano adolescenti, quelli di oggi - si presume - adulti. 
Forse sono io a essere maturato per strada (spero...), ma gli altri? Sono rimasti lì? Non sto dicendo che TUTTI i miei colleghi, presenti, passati recenti e remoti e futuri lo siano... ma buona parte. Molti. La quasi totalità. Chiariamo: tutti abbiamo una certa dose di menate, manie, paranoie (idiosincrasie?), fa parte dell'essere umano, ma sul mondo del lavoro ho trovato troppe persone disturbate TROPPO 
.

16 dicembre 2014

Jules Not Jude - Tuesday




C'è questa usanza di far aprire i concerti a gruppi "minori" rispetto agli artisti che si dovranno esibire. A volte cosidetti "minori" non si rivelano essere tali né in senso assoluto né in paragono a coloro cui fanno da apripista.
Così, di recente (taccio il nome di coloro che me li hanno fatti "scoprire") ho conosciuto questi giovini rockettari interessantissimi, assolutamente italiani, ma che cantano in inglese.
Che storia.

15 dicembre 2014

TtA #35 - Non È Facile Essere Come Gianni (Azzurro Impiegatizio)



in questo numero effetti speciali a go go

Pedro lavorava all’ufficio personale della Tafazzi Inc, ormai da cinque anni. E occupando quel ruolo, volendo o meno, scopri tante cose dei colleghi. Quelli che al rientro dalle feste si mettono regolarmente in malattia, quelli che prolungano le ferie di un paio di giorni perché “il volo è stato sospeso”, quelli che “il bambino è stato male” e riuscivano a farsi il ponte anche se il loro capo non gli aveva dato il permesso, quelli che le mattine dopo la partita arrivavano sempre in ritardo, quelli che il venerdì trovano la scusa per uscire prima. Una cosa curiosa erano le visite mediche: quelli che ne facevano tre all’anno sempre nel mese di marzo, quelli che il dentista sempre prima dell’estate, quelli che sembrano feticisti dell’esame del sangue, manco volessero le braccia come gruviera… e il tipo più curioso di tutti: Gianni. Lavorava alla Tafazzi Inc. da diversi anni. I colleghi più anziani dicevano che quando arrivò lì, aveva già i capelli bianchi, l’andatura caracollante e quegli improvvisi tic che lo contraddistinguevano. “Sindrome di Palton-Parker” diceva lui. E lo dicevano anche i documenti che aveva presentato al momento dell’assunzione, firmati dal Dottor Raspotti dell’Ospedale Della Santa Pazienza. Attestavano la sua invalidità parziale e l’assunzione come categoria protetta. Gianni passava il giorno facendo quello che poteva, con la massima calma: smistava la posta (che raramente finiva al destinatario) e la cancelleria (ma quasi sempre mancava qualcosa nell‘inventario), sistemava le lancette degli orologi nei passaggi da ora legale a solare e viceversa (sempre cinque minuti avanti),  andava a prendere gli ospiti (meglio se belle donne) in stazione e li accompagnava in albergo (sì, stranamente con tutti i problemi che aveva, poteva guidare), potava la siepe dell’azienda (questo gli riusciva bene). Faceva anche piccole commissioni: acquistava le batterie per gli orologi da muro, la carta e i toner per le stampanti, comprava quei piccoli attrezzi che potevano servire sul lavoro. E chiedeva sempre, prima di uscire, se qualcuno volesse qualcosa: brioche, gelati, ghiaccioli, una pizzetta… Ma no, non andava mai in banca, in posta, a comprare bolli e francobolli. Non si può pretendere tutto. Per le cose urgenti muovi il culo tu. E guai a parcheggiare la macchina di fianco alla sua: non voleva, dava di matto, ti rompeva le scatole finché non la spostavi. Il parcheggio interno dell’azienda aveva sempre un posto libero. Quello di fianco al suo.
Un tipo strano, Gianni, forse per colpa della sindrome di cui soffriva. Una sindrome molto rara, a quanto pare. Talmente rara che quando Pedro per curiosità la cercò su internet, non trovò nulla. Così, con il massimo delle buone intenzioni, e per poter capire meglio le esigenze del collega, gli parlò di questo fatto. 

Lo incontrò sulle scale, un martedì mattina. Forse mercoledì, non lo ricorda più nemmeno lui. Però era certo fossero le undici o giù di lì. Pedro era un abitudinario, scendeva sempre a bere il caffè a quell’ora, a metà mattinata (così come prendeva il latte macchiato nel pomeriggio alle 16.00).
“Ehilà, Gianni” gli disse, “Come stai?”.
“Eh, ho avuto una nottataccia” rispose lui, “Non riuscivo a dormire. Mi agitavo, scalciavo, mia moglie si è pure incazzata. E lo sa che c’ho sta malattia, che s’incazza a fare?” gli disse come se stesse chiedendo po’ di compassione.
“Deve essere terribile” disse l’altro, “Vuoi che ne parliamo davanti ad un caffè?”.
“Eh, si, dai, bravo, offri tu” rispose l’altro.
Si avviarono giù per le scale, mentre Gianni continuava a ripetere come fosse fastidiosa la “sua malattia”, come lo facesse dormire poco e male, “la sua malattia”, come gli desse un sacco di problemi in famiglia “la sua malattia”. Arrivati a metà delle scale, Pedro notò che non barcollava poi tanto. E che aveva in mano un martello probabilmente per  appendere, come d’abitudine, qualche certificato ottenuto dall’azienda, o qualche diploma di corso di specializzazione conseguito da un collega.  
“In effetti è strano” pensò tra sé Pedro, “Che con tutti i tic che ha riesca a martellare come si deve. O a potare la siepe alla perfezione”.
Decise di arrivare al punto:
“Senti, ma questa ‘malattia’, che poi sarebbe una sindrome, che ha tu…”
“La Palton-Parker” disse Gianni sospettoso.
“Ecco, esatto, così per curiosità, l’ho cercata su internet, ma non ho trovato nulla: esattamente, che cazzo fa?”.
Gianni sobbalzò, sbiancò in volto, sembrò quasi scattare verso Pedro, quando, poggiando un piede male, si sbilanciò e cadde rovinosamente giù per le scale, fino a ruzzolare ai piedi della reception.
“Oddio, Giannni!” urlò Miriam, la receptionist, “Gianni è caduto, chiamate i soccorsi!”.
Marta, addetta al pronto soccorso si fiondò di corsa fuori dal suo ufficio.
“SignorGiannirestifermolapregononmisembraunacosagravamadobbiamochiamarel’ambulanza”.
Anche Allan, Karson e il Sig. Tafazzi in persona uscirono di corsa dall’adiacente sala riunioni, 
“Si è fattto male?” chiese l’amministratore della società.
“No, no, sto bene, lasciatemi in pace” disse Gianni rialzandosi.
“SignorGiannirestifermosisiedasullapoltroncinaprendaunbicchierd’acquachiamiamol’ambulanzasubitissimo!!!” si premurò Marta.
Allan e Karson aiutarono Gianni a sistemarsi in sala d’attesa, di fronte alla reception e dal lato opposto della sala riunioni. Il Sig. Tafazzi si sincerò che la centralinista avesse chiamato il Pronto Soccorso.
“Saranno qui a minuti” lo rassicurò lei.
“Meno male che posso contare su di lei, signorina, il signor Gianni è categoria protetta, bisogna stare attenti quando succedono queste cose, sa…”.
Il pippone dell’amministratore fu bloccato dall’arrivo della Croce Rossa.
Miriam, prontamente indicò la sala riunioni. I due barellieri e un terzo assistente entrarono senza indugi per visitare il povero Gianni. Questi li spintonò violentemente:
“No, lasciatemi stare, non vi voglio, andate via!!”.
“Oh no, sta opponendo resistenza!” disse Tafazzi prendendo il telefono della reception, “Ora ci tocca chiamare i Carabinieri!” aggiunse componendo il numero con solerte prontezza.
“No, non chiami i Carabinieri, signor Tafazzi, sto bene!”.
“Ma non posso non chiamarli, sa, la legge!”.
“No, ma io non voglio, sto bene, mi sono rialzato!”.
“Su, non sia sciocco!” cercò di convincerlo Karson, con la sua parlata a scatti. “Meglio andare sul sicuro in questi casi!”.
“No, ma io non ho niente!”.
“SignorGiannifacciailbravosonoiol’addettaalprontosoccorsoleassicurocheèquestalaprocedura!” aggiunse Marta.
“No, sto bene, rimandateli a casa, tutti!”.
Dopo pochi interminabili minuti, due agenti furono sul posto.
“No, io i Carabinieri non li voglio, non ci vengo, lasciatemi stare!” insistette Giannni
Nonostante le proteste, l’uomo alla fine fu portato in ospedale per accertamenti.

La mattina dopo Pedro entrò in sala mensa per riporre il proprio pranzo in frigorifero. Lì, incontrò Miriam e Laura.
“Pedro, vieni qua” lo chiamò la prima.
“Sì?”.
“Ieri Laura non c’era, era andata via con Marco, e le stavo raccontando cosa è successo”.
“Riguardo a Gianni?”.
“Sì”, disse Laura, “Deve essere stato un bel casino convincerlo a…”.
Pedro sospirò.
“Cosa c’è? Perché quella faccia?” gli chiese Miriam.
“Ieri sera mi sono fermato fino alle 19.00 passate per finire alcune archiviazioni. Ho sentito il Tafazzi che parlava nel suo ufficio col Kerson… avevano la porta chiusa male e ho potuto origliare.
L’ospedale ha fatto degli accertamenti: la sindrome di Palton-Parker, di cui Gianni diceva di soffrire, non esiste!”.
“Cosa?” urlarono le due colleghe in contemporanea.
“Esatto: i documenti della malattia erano fasulli! L’ospedale ha quindi avvisato i carabinieri, che dopo una rapida ricerca l’hanno riconosciuto: Gianni Carappolo, già arrestato per contraffazione negli anni ‘80,  per piccole truffe negli anni ‘90, per falso in bilancio nel decennio scorso e ora aggiunge alla sua fedina penale, il reato di falso invalido”.
“Allora era per questo che ieri non voleva farsi visitare” disse Miriam.
“Certo: temeva che se dei dottori seri lo avessero visitato, avrebbero scoperto l‘inganno!”.
“Quindi state dicendo che per tutti questi anni…” chiese Miriam.
“Già” risposero Laura e Pedro in coro. “Ci ha turlupinati alla grande”.




14 dicembre 2014

L'Officina Della Camomilla - Live Magnolia 13-12-2014

E così abbiamo conosciuto anche questi tizi.
Cinque giovanotti milanesi (presumo: citano Ortica, Piola, il Bingo di via Washington...), con una passione per le lavatrici e avversione per naziskin e skinhead.
Cantano, con testi che potrebbero insegnare qualcosa ai migliori esponenti dell'ermetismo, il disagio e la ribellione giovanile e suonano alla grande (tra l'altro debbo ricredermi sul fatto che le donne non sappiano suonare la chitarra elettrica perché lo strumento è troppo pesante).


nessuno ha (ancora, almeno) messo su youtube alcun filmato, quindi vi tocca sorbire la mia ripresa assolutamente scadente...

bassista-cantante/chitarrista-chitarrista2

chitarrista2-tastierista

05 dicembre 2014

TtA #34 - Memorie di un aspirante suicida

Special Guest Star: Jacoby 




Se ne stava sul divano del suo monolocale a guardare la televisione con accesa la luce dell’aspiratore dei fornelli. La preferiva a quella del lampadario perché era più calda e non rifletteva sulla superficie dello schermo. Non aveva ancora sparecchiato la tavola: dopo cena gli piaceva godersi quel momento di relax e rimandare a dopo le incombenze domestiche. Sul bordo del lavello c’erano pure i cocci di vetro accatastati in quello che restava del bicchiere che aveva rotto poco prima. L’avrebbe buttato con calma, più tardi. Lenta e progressiva, gli arrivò l’attrazione per quella superficie tagliente, la voglia di passarsela sui polsi e farli sanguinare, e lasciarsi andare lì, sul divano, di fronte al notiziario delle 20;00.
Tempo addietro, aveva provato un’attrazione simile per il vuoto. Salire più in alto possibile, guardare in giù il cemento, lontano e indefinito, e lasciarsi andare. Si immaginava come poteva essere la caduta, l’accelerazione gravitazionale, l’attrito con l’aria, l’impatto con il suolo. Era abbastanza in alto da morire sul colpo? Oppure avrebbe agonizzato tra atroci dolori, visto da nessuno? Oppure il solito scocciatore sarebbe riuscito a chiamare un‘ambulanza che gli avrebbe salvato la vita lasciandolo storpio o vegetale per sempre?
Queste cose gli succedevano durante i così detti “periodi no”. E quello attuale era uno di essi, sempre più frequenti, più difficili da affrontare. Questa volta c‘era di mezzo una ragazza, per la cronaca. Come al solito si era tenuto tutto dentro e la cosa non lo aiutava. Certo, a parlarne, non cambiava molto: anche quando provava a confidarsi, pochi lo prendevano sul serio. Non sapeva se e quante persone lo capissero davvero E da qui nasceva il timore più grande: che nemmeno di fronte ad un gesto del genere ne avrebbero capito il perché.
Pensava che per sviare a ciò la soluzione potesse essere un incidente stradale. Saliva in automobile, e proseguiva ad andatura regolare per la sua strada. Non troppo veloce ma nemmeno troppo lento. Sperava che qualcuno, ad una rotonda o a un incrocio, non rispettasse la precedenza e lo travolgesse. O che qualche disgraziato non si fermasse a un semaforo rosso e gli andasse addosso. Magari un qualche sorpasso scellerato: un veicolo che spunta improvviso nella tua corsia, e giù un bel frontale.
A torturarlo ulteriormente, la parte della sua mente che si ostinava a restare lucida: gli diceva che il suicidio non era la risposta al problema, e si chiedeva da dove nascessero tutte quella angosce. Depressione? Forse ereditaria, ne soffriva qualcuno tra i suoi nonni. Esaurimento nervoso? Non erano quelli i sintomi. Disturbo mentale dovuto a qualche trauma infantile rimosso? Forse sentire uno psicologo gli avrebbe fatto bene.
Il telegiornale finì, si alzò, lentamente, sparecchiò e lavò i piatti, sempre sotto alla luce dell’aspiratore. Chiuse il sacchetto dell’umido, e lo abbandonò sul pianerottolo per portarlo giù all’indomani, alla faccia dei vicini che si sarebbero lamentati. Gli scappò un sorrisetto, che si allargò piano piano fino a scoppiare in una risata. “Che persona squallida sono“, si disse, “Se trovo gioia in queste piccole carognate“. Gli scappò l’occhio sul bicchiere rotto e i suoi cocci. Li buttò nel raccoglitore del vetro. Lo avrebbe gettato venerdì sera. Quando sarebbe uscito con i suoi amici (noiosi) a bere birra scadente nel solito bar scelto per via dei prezzi bassi. Almeno quattro risate le avrebbe fatte, e magari gli avrebbero fatto passare… quello che aveva. Si concludevano sempre così dopo i “periodi no”. Quattro risate, quattro cazzate, un bicchiere e passa tutto.
“Che persona squallida sono“, pensò di nuovo. Decise di andare a letto, mettere su un po’ di musica jazz dalla compilation comprata qualche giorno prima e dormirci sopra. Da venerdì gli sarebbe sembrato tutto meno brutto.

02 dicembre 2014

COLD PLAY - Violet Hill




Was a long and dark December
From the rooftops I remember
There was snow, white snow

Clearly I remember
From the windows they were watching
While we froze down below

When the future's architectured
By a carnival of idiots on show
You'd better lie low

If you love me
Won't you let me know?

Was a long and dark December
When the banks became cathedrals
And the fog, became God

Priests clutched onto bibles
Hollowed out to fit their rifles
And the cross was held aloft

Bury me in armor
When I'm dead and hit the ground
My love's opposed but unfolds

If you love me
Won't you let me know?

I don't want to be a soldier
Who the captain of some sinking ship
Would stow, far below

So if you love me
Why'd you let me go?
I took my love down to violet hill
There we sat in the snow
All that time she was silent still
So if you love me
Won't you let me know?
If you love me,
Won't you let me know?