Le gocce di pioggia battevano violente sul cortile della Tafazzi Inc, utilizzato come parcheggio interno dalle “alte sfere“ della società. I semplici dipendenti parcheggiavano fuori, esponendo le proprie vetture ai consueti disagi di chi non ha un parcheggio riservato.
una cover, seppur pacchiana e artigianale |
«Vattene» le disse secco.
«Sei pazzo? Cosa stai facendo? È la macchina di…».
«So benissimo di chi è la macchina» rispose lui alzando l’accetta. «Vattene, non vorrei ti facessi male per sbaglio».
Laura si allontanò, lui vibrò il colpo, tutto il blocco dello specchietto si stacco, rimbalzò per terra, e finì contro la portiera della macchina parcheggiata di fianco, il SUV dell’amministratore delegato. L‘antifurto iniziò a strillare. Laura urlò, e corse verso l’ingresso da cui vide affacciarsi la receptionist e un altro collega, richiamati dagli strani rumori provenienti dal cortile/parcheggio.
«È impazzito» urlò loro Laura.
Alan guardò la portiera del SUV: non sembrava scalfita. Meno male: non era l’automobile di Tafazzi quella che voleva colpire. Con calma si portò verso l’altro specchietto retrovisore. Colpì anch’esso, senza però ottenerne il distacco come con l’altro: rimase penzolante, attaccato per i fili. Con un secondo colpo, lo staccò del tutto, senza che finisse però addosso al veicolo affiancato, la station wagon di cui ignorava l’appartenenza. Decise di dedicarsi ai finestrini laterali: colpì quello del passeggero, con il manico dell’accetta. Ci vollero tre o quattro colpi, ma anche quello fu sistemato. Quando iniziò a dedicarsi a quello posteriore sentì nuovamente delle voci chiamarlo. L’amministratore delegato, il Tafazzi in persona, giunse lì insieme al proprietario dell‘automobile verde, il manager del Reparto Produzione.
«Disgraziato, farabutto! Cosa stai facendo alla mia macchina?» gli urlò quest’ultimo.
«Alan» tuonò autoritario il Tafazzi, «Si allontani immediatamente da lì, e metta via quell’arma!» disse con il suo vezzo di chiamare la gente per nome e dargli del lei.
«Tu sei disoccupato, hai finito di lavorare qui, hai capito?» sbottò di nuovo il manager.
«Karson» cercò di tranquillizzarlo il Tafazzi, «Non ti preoccupare, gli parlo io».
Intanto Alan proseguiva la sua opera di demolizione. Finito con i finestrini laterali, si era accanito sulle luci posteriori: quella di stop era già un ricordo, quella di retromarcia stava patendo il suo turno, e quelle di posizione sarebbero state le prossime.
«Per favore, Alan» lo chiamò di nuovo il Tafazzi, «Che cosa la spinge a fare questo? Un litigio sul lavoro? Non poteva parlare con il suo capo prima di giungere a ciò? Se vuole mi ci metto anch’io, e chiariamo questo fatto, si sarà trattato di sicuro di un malinteso».
«Farabutto» gli urlò il manager Karson, «Disgraziato, sciagurato, mi assicurerò che uscito da qui non lavorerai mai più da nessuna parte».
«Su Karson» gli disse il Tafazzi, «Non peggiori la situazione…».
Intanto Alan aveva finito con le luci, e stava facendo i finestrini laterali. La pioggia, non voleva smettere.
Alle spalle del Tafazzi e Karson, si era radunata una piccola folla, che restava distanziata a guardare, la maggioranza riparandosi con un ombrello, qualche temerario incurante della pioggia. Qualcuno era pure affacciato alle finestre del piano superiore.
«Laura, perché non l’ha fermato?» urlò Karson alla collega che l’aveva chiamato.
«Fermarlo? Ha in mano un’accetta!» rispose lei.
«Chiamate la polizia!» urlò Karson.
«La prego», lo ammonì il Tafazzi, «Non attiriamo cattiva pubblicità sull’azienda!».
Intanto Alan era salito in piedi sul cofano del veicolo e stava scaricando la propria rabbia sul tettuccio della macchina. Al quinto o sesto colpo, il ferro dell’accetta rimase bloccato nel metallo. Karson si gettò verso di lui, afferrandolo per una gamba dei pantaloni e tirandolo. Alan gli mollò un pugno in testa, e, quando mollò la presa, un calcio che lo colpì al petto sbilanciandolo all’indietro. Alan tentò di estrarre l’accetta dal tettuccio, quando Karson lo tirò di nuovo, stavolta per la giacca. Il dipendente scivolò sul metallo bagnato del cofano, e cadde a terra pestando la testa, ed emettendo un rumore sordo. Karson gli fu addosso coprendolo di pugni in volto. I loro colleghi cercarono di separarlo dal suo bersaglio, ma la sua furia cieca impedì loro di riuscirvi. Fu proprio il Tafazzi a immobilizzarlo, grosso e muscoloso com’era. Bloccato l’aggressore, i presenti verificarono le condizioni di Alan. Fu Laura la prima a chinarsi su di lui: vide il volto coperto di lividi, e, cosa che la preoccupò parecchio, il collo piegato in modo innaturale. Lo chiamò, lo scosse dolcemente, avvicinò l’orecchio alla sua bocca. Non sentì uscire alcun respiro.
«È morto» urlò sconvolta a Karson, gettandosi contro di lui per coprirlo di calci e pugni.
Di nuovo, il Tafazzi cercò di respingerla, ma tutti i suoi colleghi la seguirono.
«Tafazzi dovevi chiamare la polizia subito» gridò qualcuno.
«È vero, bastardo, pensi sempre solo all’azienda e mai a noi» fece eco un altro.
«Hanno ammazzato Alan!».
«Brutti bastardi!».
Tutti i dipendenti delle Tafazzi Inc. furono addosso al loro amministratore delegato, il Tafazzi, e al manager del Reparto Produzione, Karson.
Aveva ormai smesso di piovere, ma nessuno se n’era accorto.