05 dicembre 2014

TtA #34 - Memorie di un aspirante suicida

Special Guest Star: Jacoby 




Se ne stava sul divano del suo monolocale a guardare la televisione con accesa la luce dell’aspiratore dei fornelli. La preferiva a quella del lampadario perché era più calda e non rifletteva sulla superficie dello schermo. Non aveva ancora sparecchiato la tavola: dopo cena gli piaceva godersi quel momento di relax e rimandare a dopo le incombenze domestiche. Sul bordo del lavello c’erano pure i cocci di vetro accatastati in quello che restava del bicchiere che aveva rotto poco prima. L’avrebbe buttato con calma, più tardi. Lenta e progressiva, gli arrivò l’attrazione per quella superficie tagliente, la voglia di passarsela sui polsi e farli sanguinare, e lasciarsi andare lì, sul divano, di fronte al notiziario delle 20;00.
Tempo addietro, aveva provato un’attrazione simile per il vuoto. Salire più in alto possibile, guardare in giù il cemento, lontano e indefinito, e lasciarsi andare. Si immaginava come poteva essere la caduta, l’accelerazione gravitazionale, l’attrito con l’aria, l’impatto con il suolo. Era abbastanza in alto da morire sul colpo? Oppure avrebbe agonizzato tra atroci dolori, visto da nessuno? Oppure il solito scocciatore sarebbe riuscito a chiamare un‘ambulanza che gli avrebbe salvato la vita lasciandolo storpio o vegetale per sempre?
Queste cose gli succedevano durante i così detti “periodi no”. E quello attuale era uno di essi, sempre più frequenti, più difficili da affrontare. Questa volta c‘era di mezzo una ragazza, per la cronaca. Come al solito si era tenuto tutto dentro e la cosa non lo aiutava. Certo, a parlarne, non cambiava molto: anche quando provava a confidarsi, pochi lo prendevano sul serio. Non sapeva se e quante persone lo capissero davvero E da qui nasceva il timore più grande: che nemmeno di fronte ad un gesto del genere ne avrebbero capito il perché.
Pensava che per sviare a ciò la soluzione potesse essere un incidente stradale. Saliva in automobile, e proseguiva ad andatura regolare per la sua strada. Non troppo veloce ma nemmeno troppo lento. Sperava che qualcuno, ad una rotonda o a un incrocio, non rispettasse la precedenza e lo travolgesse. O che qualche disgraziato non si fermasse a un semaforo rosso e gli andasse addosso. Magari un qualche sorpasso scellerato: un veicolo che spunta improvviso nella tua corsia, e giù un bel frontale.
A torturarlo ulteriormente, la parte della sua mente che si ostinava a restare lucida: gli diceva che il suicidio non era la risposta al problema, e si chiedeva da dove nascessero tutte quella angosce. Depressione? Forse ereditaria, ne soffriva qualcuno tra i suoi nonni. Esaurimento nervoso? Non erano quelli i sintomi. Disturbo mentale dovuto a qualche trauma infantile rimosso? Forse sentire uno psicologo gli avrebbe fatto bene.
Il telegiornale finì, si alzò, lentamente, sparecchiò e lavò i piatti, sempre sotto alla luce dell’aspiratore. Chiuse il sacchetto dell’umido, e lo abbandonò sul pianerottolo per portarlo giù all’indomani, alla faccia dei vicini che si sarebbero lamentati. Gli scappò un sorrisetto, che si allargò piano piano fino a scoppiare in una risata. “Che persona squallida sono“, si disse, “Se trovo gioia in queste piccole carognate“. Gli scappò l’occhio sul bicchiere rotto e i suoi cocci. Li buttò nel raccoglitore del vetro. Lo avrebbe gettato venerdì sera. Quando sarebbe uscito con i suoi amici (noiosi) a bere birra scadente nel solito bar scelto per via dei prezzi bassi. Almeno quattro risate le avrebbe fatte, e magari gli avrebbero fatto passare… quello che aveva. Si concludevano sempre così dopo i “periodi no”. Quattro risate, quattro cazzate, un bicchiere e passa tutto.
“Che persona squallida sono“, pensò di nuovo. Decise di andare a letto, mettere su un po’ di musica jazz dalla compilation comprata qualche giorno prima e dormirci sopra. Da venerdì gli sarebbe sembrato tutto meno brutto.

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