14 maggio 2020

StorieLLe: Compagni DI Sbronze (after Bukowski)


Come scrivevo nel precedente post, ho appena finito di leggere un libro (raccolta di racconti) di Bokowski. In tale post avevo citato un racconto, nominandolo con il titolo sbagliato: non era "compagni di sbronze" ma bensì "La Barba Bianca".
Qui sotto mi sono permesso di riscrivere parte dell'episodio e cambiare il finale. Con molta umiltà. Ecco...



Aria di chiuso, poche finestre piccole con vetri smerigliati, poca luce da fuori, poca luce dentro, tantissimo fumo passivo.
Eravamo seduti in quel bar, dopo il turno di lavoro nel frutteto. Aria di chiuso, poche finestre piccole con vetri smerigliati, poca luce da fuori, poca luce dentro, tantissimo fumo passivo.
Ogni tanto un gran fracasso arrivava dall’esterno, e tutto tremava. Le bombe. Al di là della vallata, c’era la guerra. Mi chiedevo se prima o poi qualcuno sarebbe venuto da noi a razziare gli alberi. Le mele e pere che raccoglievamo erano pur sempre cibo. A quanto pare i soldati non avevano voglia di frutta. Preferivano bistecche, patatine fritte, birra o superalcolici. La frutta è per i bambini della mensa delle elementari.
Insieme a me c’erano i miei due compagni di raccolta. Herb, un energumeno mastodontico, e Talbot, un omino gracilino. Stavamo sempre insieme, noi tre. Ma non perché fossimo amici. Perché qualche strano caso ha voluto che espiassimo le nostre colpe o soffrissimo le nostre sfighe in questa valle. Nessuno arrivava lì di sua volontà, ce lo portava il destino: un amore finito, un investimento andato male, un’azienda in bancarotta (magari la sua). E ognuno si sfogava come poteva. In particolare Herb, architettando dispetti atroci a Talbot, che era costretto a subire per evidenti ragioni di stazza.
Ero stanco del piagnucolare di Talbot,  e stanco della cattiveria di Herb. Li avrei mollati entrambi terminata la giornata di lavoro. Ma chi decideva per noi in quel momento aveva deciso che fosse più sicuro restare insieme anche dopo il lavoro, non si sa mai, non ci trovavamo nel posto più piacevole del mondo. Certo, meglio di dove, a pochi chilometri da qui, ci si sparava contro o ci si lanciavano addosso granate. Ma faceva schifo lo stesso. Così eccoci di nuovo lì, nel bar. Tutti e tre. Con Herb che diceva volgarità e si vantava della sua cattiveria, Talbot che piangeva, e io che sopportavo.
Da fuori arrivò l’ennesimo rombo. Ci tenemmo al tavolo. Udimmo l’ennesima esplosione, qualcosa tremò, ma l’edificio rimase in piedi. Passata la paura, Il cameriere ci portò il liquore del posto, una schifezza che almeno riuscivamo a mandare giù. Tutto il resto del menù era imbevibile o immangiabile.


Poi entrò lei: una ragazzina pelle ossa e tette. Pesava quaranta chili, quarantacinque al massimo. Metà di quel peso erano le ghiandole mammarie. Chioma folta, visino da bambina, e due tette enormi da cui partivano braccia scheletriche e gambe lunghe e sottili. Si sedette al nostro tavolo, timidamente, o fingendo timidezza. Noi tre ci bloccammo a guardarla, lei ci sorrise.
 Quando uno è cafone sa farsi sempre riconoscere.
Herb allungò una mano e strizzò un seno senza fare troppi complimenti. Quando mai. Quando uno è cafone sa farsi sempre riconoscere.
“Ti piacciono?” chiese lei, sorridendo. “Puoi avere anche il resto” disse, con un accento straniero marcato.
Ci sparò il prezzo per mezz’ora. Troppo alto.
“Siamo solo braccianti al campo, non possiamo permettercelo” le risposi io.
Una breve trattativa: palpeggiamento tette e lavoro di bocca per un importo più abbordabile.
Il primo a voler andare fu Herb. La seguì dietro a una tenda da cui si intravedevano degli scalini. La tenda c’era sempre stata. Gli scalini, giuro, è la prima volta che li notavo, chissà dove si erano nascosti tutto questo tempo. Al contrario di come si faceva notare il coltellaccio che Herb si portava sempre alla cintura. Non che lo avesse mai usato: per regolare i conti o infliggere angherie gli bastavano le mani... Comunque, quel coltello venne notato anche da un uomo, probabilmente ispanico, alto e grosso (ma mai come Herb) che fece un cenno ad un altro uomo, molto somigliante, vicino all’ingresso. Questo rispose a sua volta con un cenno. Due buttafuori. Anche loro, giuro, mai notati.



La mia ispezione del circondario venne interrotta dalla vocina querula di Talbot.

“lo ammazzo, lo ammazzo, lo ammazzo” ripeteva ossessivamente a bassa voce.“lo ammazzo, lo ammazzo, lo ammazzo” ripeteva ossessivamente a bassa voce..Povero Talbot. Per trovarsi lì con noi doveva aver sofferto parecchio anche lui, nella sua vita precedente. E ora subiva le malvagità di Herb. Prima o poi sarebbe scoppiato, avrebbe fatto qualcosa, avrebbe reagito. Del resto “Talbot” era il cognome del protagonista del film “L’Uomo Lupo”. Doveva avere dentro per forza una bestia anche lui. Che prima o poi si sarebbe liberata. Ma, contrariamente a quanto succede nei film, per lui sarebbe finita molto male. E a quel punto, sarei stato designato suo successore come vittima delle angherie di Herb. Non è stato detto, ma credo si sia capito: Talbot è il più debole del trio. Io sono quello “intermedio”, ma non è che sia molto più forte di Talbot. E Herb è decisamente molto più grosso di me. Se fossi vittima delle sue angherie, nemmeno io potrei ribellarmi, non fisicamente. Ma quel delinquente preferisce, per sicurezza, prendersela comunque con quello più piccolo. Potrebbe prendersela con entrambi. Ma in questo caso potremmo fare comunella, e due contro uno… chissà come andrebbe a finire.
“Lo uccido, lo uccido, lo uccido” continuava a ripetere. Prese il bicchiere che il bestione aveva lasciato lì. Ci sputò dentro.
“non hai visto niente, tu!”
Feci un cenno di negazione.
“lo uccido, lo uccido, lo uccido”.


Due buttafuori (...) mai notati.
Improvvisamente, dall’alto, sentimmo un tonfo. Non l’assordante rombo di un’esplosione seguito da una specie di terremoto, ma un tonfo sordo e solitario. Poi, dopo due secondi, le grida della ragazza, e quelle di Herb a coprirle. Herb stava combinando qualche casino dei suoi. Probabilmente voleva che la ragazza includesse qualche lavoretto extra nella sua prestazione, e non aveva accettato un “no” come risposta. I due gemelli Gonzales (chiamiamoli così per comodità) entrarono in azione: il primo, quello più vicino alle scale, si precipitò di sopra, seguito in un batter d’occhio dall’altro.
E intanto Talbot sussurrava “uccidetelo, uccidetelo, uccidetelo”.
Dall’alto giunsero grida, rumori, altri tonfi, rumore di cose che si rompevano per terra. Poi passi, grida, e un corpo che cadeva per le scale. Gemello numero uno (o due?) aveva appena misurato la pendenza dei gradini e si teneva il braccio su cui era atterrato. Subito, arrivò Herb a colpirlo, usando solo la mano sinistra. Nella scapola destra qualcuno ci aveva infilato il suo coltellaccio. Ironia del destino.
“uccidetelo, uccidetelo, uccidetelo” continuava a ripetere Talbot.
E mentre anche gemello numero due (o uno?) si univa alla lotta, e Herb con un braccio solo teneva loro testa, io mi chiedevo cosa ne fosse della ragazza (stuprata? Uccisa? Mutilata? Sfigurata?) e soprattutto cosa ne sarebbe stato di me e Talbot, i compagni dello scellerato attaccabrighe che tanto stava impegnando i buttafuori (i protettori della ragazza? Erano i figli del barista? Non credo, il signore mi sembrava avere tratti più arabeggianti che ispanici).
Gli altri avventori, dal canto loro, urlavano e incitavano i contendenti, probabilmente era già partita qualche scommessa. Il barista stava caricando un fucile a pallettoni.
“Talbot, dobbiamo andarcene” gli dissi. Saremmo più potuti tornare? È il bar più feccioso del mondo, ma l’unico della zona, e con la prostituta più bella del mondo (nonché l’unica della zona) con in paio di tette più grosso del mondo (ci sono altre portatrici sane di tette, ma non di quel livello, posso garantire).
Il barista sparò un colpo per aria. I pallettoni avrebbero potuto rimbalzare e ferire qualcuno, ma… per fortuna non è stato così.
Herb e i gemelli Hernandez (un cognome vale l’altro, no?) si bloccarono. Tutti e tre con il fiatone. Herb il terribile a quanto pare, di fronte a chi ha gli strumenti per fare la voce più grossa, sa scendere a miti consigli…

Herb Herb, un energumeno mastodontico
Il barista urlò qualcosa nella sua lingua… nessuno capì, ma nessuno mosse un dito. Tranne Talbot. Talbot si alzò di colpo dal tavolo, scattò verso Herb, che gli dava le spalle (di tutti gli scatti visti in questi pochi concitati attimi, fu il più veloce), e con un salto (degno del miglior giocatore di cavallina) fu addosso alla schiena di Herb: gli cinse la vita con le gambe, gli strinse la fronte tra braccio e petto e con la mano libera estrasse il coltello. Glielo piantò nel collo. Una volta, due volte, tre volte. Herb crollò in avanti con un tonfo che sollevò tutta la polvere di quel pavimento lercio.  Talbot era ancora lì, avvinghiato a lui che lo massacrava fisicamente di colpi, come psicologicamente aveva dovuto subire in quei mesi. E poco importa che forse il bestione fosse schiattato già al primo colpo… il piccoletto sfogava la sua ira. Sotto gli occhi dei gemelli, del proprietario del bar, degli altri clienti, molti dei quali si chiedevano se la scommessa fatta poco prima fosse valida o meno, causa intervento di un elemento esterno.
L’uomo lupo teneva fede al suo nome, la bestia era stata liberata.
Il barista ricaricò il fucile, e Il gemello numero uno fece un cenno al numero due, che, tenendosi il braccio, si affacciò alle scale, chiamando la ragazza.
Cazzo. Finii il mio bicchiere con un sorso. Mi alzai. Presi il bicchiere di Talbot, e scolai pure quello, lasciando lì il liquore di Herb per via dello sputo. Puntai l’uscita del bar, ora deserto (gli avevano avuto la mia stessa idea e mi avevano preceduto verso l’esterno) seguito dai gemelli e da miss Tette. Udii lo sparo poco dopo aver varcato la soglia. Stava imbrunendo, la strada sterrata era illuminata dalle lampade a olio sugli usci delle poche case. Vidi la corriera parcheggiata in piazza. Le porte erano aperte, un tizio vestito da conducente di autobus gli si stava avvicinando. Affrettai la corsa e saltai a bordo.
“Dove va?” chiesi.
Il tipo farfugliò qualcosa che non capii. Salii a bordo.
“Tra quanto parte?”.
Indicò un “quattro” con le dita. Mi sedetti per terra, nello spazio tra due sedili, così che dalla finestra non mi si potesse vedere. Il conducente pose la mano come a dire “paga il biglietto, prima, stronzo”. Il “quattro” di prima era da intendersi come valore monetario, non come unità di misura del tempo. Infilai le mani in tasca ed estrassi tutte le monete che avevo. Trattenni il fiato, quando le contai. Superavo abbondantemente “quattro” unità di moneta locale. Ma lui forse intendeva “quattro decine”. Spero non “quattro centinaia”.
Prese quanto gli detti, mi guardò torvo, e si sedette al suo posto. Avviò l’autobus (attesi qualche minuto prima di rialzarmi e sedermi comodo) ed eccomi qui, con pochi spiccioli in tasca e solo i vestiti che avevo indosso, verso una destinazione ignota.
Speriamo che dove siamo diretti non faccia freddo.
E che ci sia anche Miss Tette, o qualcuna che le assomigli almeno un po’.
 

Nessun commento: