05 ottobre 2013

TtA #23 TESTA DI VESPA #1 - le origini

TESTA DI VESPA #1:

Le origini di Testa di Vespa


ricostruzione non definitiva del personaggio
Adrian Ranzoni percorreva in solitudine, sulla sua bicicletta, la strada sterrata che portava verso il fiume. L’acqua che scorre, l’ombra di un albero, un buon libro: tutto quello che poteva volere in un’afosa domenica pomeriggio di agosto. I suoi amici erano andati tutti in ferie, la ragazza che gli piaceva in giro con il gruppo ambientalista di cui era attivista, e lui da solo, in città, a lavorare. I turni in fabbrica erano lunghi e faticosi, ma con i colleghi si era instaurato un clima di cameratismo che quasi gli facevano sembrare piacevoli le fatiche quotidiane. A questo stava pensando quando superò il bivio con la ex cascina abbandonata, da poco restaurata da fanatici delle coltivazioni bio. Ci gettò un’occhiata: sembrava non esserci nessuno. Eppure si diceva che quei fanatici si ritrovassero a lavorarci proprio nel fine settimana. Boh. Tornò a immergersi nei propri pensieri quando sentì qualcosa di piccolo ma duro impattare contro la tempia destra, tra la pelle e la stecca degli occhiali sole. Riuscì a mantenere l’equilibrio e non cadere dalla bicicletta, e sentì un ronzio proveniente dal punto di impatto farsi sempre più acuto.
“Un fottuto insetto!” pensò spaventato, mentre allungava una mano per liberarlo, nel terrore di venire punto. Espulsolo con una ditata, sentì la tempia pulsare.
“Il maledetto mi ha punto” pensò.
 Si fermò, scese dalla bicicletta, e frugò nello zaino in cerca del cellulare che usò come specchio per verificare se fosse stato effettivamente punto. Nonostante vari tentativi goffi di contorcesi, piegare la testa, spostare lo sguardo eccetera, non riuscì a vedere nulla. Si scattò allora una foto alla tempia. Venne sfocata. Riprovò. Ripresa sbagliata: si vedeva l’orecchio. Si filmò, facendo passare la camera lungo tutto il lato destro del volto e guardò la zona interessata con il fermo immagine. Un lieve gonfiore, che però sentiva dolere tantissimo. Si bagnò con un po’ d’acqua della borraccia, e decise di tornare a casa con la massima fretta.
“Mi avrà punto sicuramente. Il suo veleno arriverà al cervello e morirò tra atroci dolori” pensò pedalando il più veloce che poteva.
“Però se corro così tanto, il cuore batte più veloce e il veleno si diffonde più rapidamente!” si disse in preda alla paranoia.
Arrivato alla soglia del cancello del suo palazzo sentì girare la testa.
“Lo schifoso mi ha avvelenato”.
Ripose la bicicletta sulla rastrelliera e si precipitò verso l’ascensore. La vista iniziava ad annebbiarsi. “Presto, devo entrare in casa!”.
Salì in ascensore e si guardò nello specchio, alla ricerca della puntura.
“Si è ingrossata!”
Ora gli ronzavano le orecchie. Le porte scorrevoli si aprirono e lui si precipitò verso il portone di casa.
“Le chiavi, devo… devo… che coglione, dovevo chiamare un’ambulanza quando sono stato punto!”.
Scosso da questa clamorosa rivelazione, svenne. Si riprese più tardi, quando due uomini e una donna vestiti con una tuta blu scuro lo stavano trasportando a bordo di un veicolo bianco. I suoi genitori lo guardavano dall‘esterno. Non capì cosa stessero dicendo, ma vide la madre parlargli con aria disperata. Il padre la prese per le spalle e le sussurrò qualcosa che la consolò. Poi la porta del veicolo si chiuse e lui perse conoscenza di nuovo. Si risvegliò nel buio di una stanza che sapeva di disinfettante, disturbato dal russare da persona sdraiata in un altro letto in quella stessa camera.
“Almeno non sono morto” pensò. “Chissà quanto tempo sono stato qui”.
Tastò alla ricerca della tempia, ma non riuscì a riconoscere quello che toccava come il proprio cranio.
«Che diavolo…» disse a voce alta, sentendo però uscire dalla propria bocca solo un ronzio.
Preoccupato, si alzò dal letto e, nella semioscurità, puntò quella che gli sembrava la porta del bagno. Strappò tutti gli elettrodi che gli erano stati collegati per monitorare le sue condizioni, e il macchinario situato di fianco al letto iniziò ad emettere una cacofonia di allarmi. L’uomo di fianco a lui si svegliò e gli urlò contro. Adrian lo ignorò, aprì la porta del bagno e cercò l’interruttore della luce. Alle sua spalle giunse la voce di una donna.
«Signore, torni a letto! Suo padre era qui fino a poco fa, è andato a prendersi un caffè. Se torna a letto, lo chiamo e…».
Adrian si volse verso di lei, e questa, che riconobbe come un’infermiera, si zittì spaventata.
«Cosa c’è? Cos’ho in faccia?» chiese avvicinandosi. «È stata quella maledetta puntura, vero? Cosa mi è successo?».
  La donna scappò via. Adrian, allarmato tornò verso il bagno, cercò con maggiore fretta e attenzione l’interruttore e finalmente accese la luce. Nello specchio vide il volto di un’enorme vespa: i grossi occhi neri rotondi, le antenne, la grossa bocca contornata dalla mandibole, da cui usciva un acido biancastro. Lanciò un urlo, che sembrò più un ronzio e cadde seduto sul pavimento. L’uomo che russava si era svegliato, e lo stava chiamando.
«Ehi, amico, tutto bene? Che avete tutti da urlare stanotte?».
Adrian accese la luce della stanza, e si avvicinò all’uomo nel letto. Questi lo guardò a bocca aperta.
«Come sono?» gli chiese Adrian, ancora incredulo alla sua trasformazione. «Come sono? Sono un mostro?». La sua voce gli sembrò nuovamente un ronzio.
«Cazzo, che maschera da paura! Ma c’è una festa? Aspe’ che ti faccio ‘na foto».
Il paziente prese il suo smartphone, lo puntò verso Adrian, e gli fece vedere la foto scattata. Ritrovò sullo schermo il volto visto nello specchio. Dietro alla testa gli era cresciuta una protuberanza che sembrava il corpo di una gigantesca vespa. Dallo spaventò arretrò, e senti qualcosa muoversi sopra la sua testa.
«Ma le ali si muovono davvero! Ma sei figo un totale!!!» urlò il paziente.
Il giovane era sconvolto. Iniziò di nuovo a urlare (in realtà emise un ronzio acuto) e si voltò verso la finestra.
«Oh, pure il pungiglione su coppino!» gli disse il compagno di stanza.
Tastò sopra la testa, e al tatto riconobbe tutti i dettagli della fotografia e della descrizione ricevuta dallo sconosciuto. Una voce lo chiamò. Era il padre, accorso insieme ai medici e alla sicurezza dell’ospedale. Tutti rimasero atterriti nel vederlo.
«Oh, è gagliardo» disse il paziente nella stanza, interrompendo l’imbarazzato silenzio.
Adrian guardò il padre, e si girò verso la finestra. Vi si lanciò attraverso sfondandola e consegnò la propria mostruosità al vuoto. Il genitore accorse verso il vetro rotto e chiamò il nome del figlio. Questi, ormai in precipizio verso il suolo lo udì, e come un riflesso involontario, iniziò a far vibrare le proprie ali, prese quota e volò via.
«Non ci credo» disse il paziente nella stanza, «Riesce pure a volare! Ditemi dove ha preso quel costume, ne voglio uno anch‘io».
Il signor Ranzoni e i tutti i presenti lo guardarono sconvolti. «Ne voglio uno da cimice» riprese l’altro.
 «Dite che ce l’avranno da cimice?».

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