Tre volte a settimana Rebecca, al ritorno dal lavoro, si
cambiava e usciva a correre. Poco più di tre chilometri in meno di un’ora. Il
necessario per tenersi in forma. Così il percorso che partiva da casa, passava
per la pista ciclopedonale, attraversava il parco, saliva sulla collinetta e
discendeva dal cavalcavia della Statale per ritornare a casa sua, era diventata
la sua dimensione parallela con cui si separava dal mondo.
Anche quel mercoledì sera, con addosso una tuta lillà e
nelle orecchie una tracklist pensata apposta per darsi la carica, stava
ripartendo per affrontare per l’ennesima volta ‘la sua via’, come l’aveva
ribattezzata.
Anche quel mercoledì,
nonostante la discussione avuta coi colleghi, in pausa pranzo.
“Fai tutte le volte
quel percorso?” le aveva chiesto la sua collega Paula..
“Sì” le aveva risposto
lei.
“Da sola?”.
“Sì”.
“Sempre? Da sola?”
“Sì, ma perché?”
“Ma metti il percorso
su Facebook? Che non cambia mai? E se qualche maniaco ti volesse pedinare?”
“Mi porto dietro lo
spray al peperoncino, se ti può rassicurare” aveva commentato facendo
spallucce.
“Ma è legale?” si
intromise Sam, l’altro collega, lo stagista saputello – che non sarebbe durato
molto.
Lei gli aveva risposto
con uno sguardo di sufficienza.
“E se a furia di
agitarsi scoppiasse?” aveva chiesto allora Paula…
“Non mi sembra
salutare correre sul cavalcavia della Statale, in piena ora di punta… sai
quanto smog respiri?” aveva insistito Sam. Rebecca decise di cambiare
argomento…
Quella sera, era partita più tardi del solito, tornando a
casa aveva trovato traffico… e si sentiva più stanca del normale. Dava la colpa
alle chiacchiere dei colleghi. Paula si preoccupava per lei, Sam non voleva
dire nulla di male, lui era fatto così. Arrivata ai piedi della collina si
sentiva già stanca. Iniziava a fare buio, nonostante le giornate si fossero
allungate. In giro aveva incrociato meno gente del solito, e in quel punto
c’era solo lei. Le prese uno strano timore, e affrettò il passo. Arrivare in cima
alla collina le costò più fatica del solito… rallentò per riprendere fiato,
quando una figura grigia spuntò dal nulla, afferrandole le braccia, e sentì
qualcun altro trattenerla da dietro. Qualcosa di ruvido premuto contro il naso
e la bocca, uno strano odore, poi più niente…
Rinvenne mezz’ora dopo, e si rese conto di essere
incappucciata, seduta e legata ad una sedia. Cercò di muoversi ma i erano
troppo stretti. Provò ad urlare, ma era anche imbavagliata. Sentì delle voci,
provenire dal luogo dove si trovava.
“Oh, si è svegliata”.
Maschio, giovane, nessun accento.
“Dai, dai, mettiti il passamontagna”
Un altro uomo, più anziano. Uno strano accento che non
riusciva a decifrare.
Le strapparono via il cappuccio, insieme a un paio di
capelli che vi si erano incastrati. Una forte luce l’abbagliò, e distolse lo
sguardo, ma uno dei due uomini l’afferrò per i capelli.
“No, guarda qui”.
“E taci” aggiunse l’altro.
Forzata a tenere il viso rivolto verso la luce (un
riflettore?) socchiuse gli occhi mentre sentiva qualcosa che le veniva
appoggiato tra mento e petto.
“Signor Jones, abbiamo rapito sua figlia” disse l’uomo più
anziano. “Se la vuole rivedere viva, dovrà seguire le istruzioni nella busta
che riceverà insieme a questo messaggio video”.
Sentì dei passi. L’altro uomo passò davanti al riflettore, e
dalla sagoma capì che aveva in mano una telecamera. Puntò all’oggetto che aveva
sul petto. Odore di carta pesante e inchiostro. Un quotidiano, per dimostrare
che era viva.
Perché l’avevano rapita? La sua famiglia non era facoltosa.
Non se la cavano male, ma nemmeno si tuffavano nel denaro come Zio Paperone.
Quanti soldi avrebbero potuto estorcere a un cittadino di medio reddito come
suo padre? Valeva la pena rischiare un sequestro di persona a scopo estorsione?
E se avessero chiesto una somma che il padre non fosse stato in grado di pagare?
Il riflettore venne spento. Finalmente vide i due uomini,
passamontagna sul volto e anonime tute da operaio grigie, che riportavano le
tracce di loghi stampati ma cancellati dal tempo. O forse strappati via. Uno
dei due le si avvicinò e la bendò. Gli occhi le dolevano, come le spalle tirate
all’indietro e i polsi e le caviglie legati alla sedia.
“Ci frutterai un sacco di soldi, bambina” le disse il più
anziano.
“Avevamo detto di non parlarle” lo ammonì l’altro.
“Oh, stai a preoccuparti troppo”. Accendo dell’est. L’altro
no. Era delle sue parti.
“Quando il signor Jones ritroverà la sua bambina, saremo già
lontani, al sicuro, e ricchi come nababbi”.
Rebecca iniziò a capire cosa era successo.
“Il vecchio non ci pagherà”.
“Quello stronzo lo farà, per la sua bambina”.
“Ha corrotto tutti i testimoni, e ha fatto sparire quelli
che hanno rifiutato… ammazzerà anche noi due!”.
“Lo facciamo per vendicare le vittime!” sbotto quello straniero.
“Avrebbe dovuto rispettare le norme di sicurezza, ora sta depistando le
indagini. Ma se la vostra giustizia fallirà, la mia no. Eri d’accordo fino a
ieri, perché ora hai cambiato idea?”.
Il giovane tacque.
“No, non l’ho fatto” disse poi rassegnato. “Vado a
consegnare la lettera e la chiavetta con il filmato”.
“Aspetta” urlò l’altro, “Non toglierti la maschera davanti a
lei”.
“Ma è bendata!”
“La sicurezza!” rispose l’altro rimettendo in testa a
Rebecca il cappuccio.
Il giovane sbuffò.
Rebecca sentì una porta aprirsi e poi richiudersi. Dal
discorso aveva capito a sufficienza. Iniziò a lamentarsi e mugugnare. Il
sequestratore le urlò di tacere, ma lei proseguì con maggiore intensità.
Le mollò una sberla in testa, ma il cappuccio ne attutì
l’impatto. Lei proseguì, e l’uomo si arrabbiò ancora di più colpendola più forte.
Si zittì per alcuni istanti poi riprese.
Il carceriere straniero imprecò in una lingua che la ragazza
non conosceva, poi le tolse il cappuccio.
“Che problema hai? Ti tolgo il bavaglio, ma tu non urlare e
parla civilmente! Capito?”
Rebecca fece cenno con la testa, e una volta libera, dopo un
respiro profondo, iniziò a spiegarsi.
“Signore, mi ha confuso, mi avete confusa per un’altra. Voi
prima parlavate di Carter Jones, l’industriale”.
“Sì” confermò l’altro dubbioso.
“Io non sono sua figlia. Abbiamo lo stesso nome, lo stesso
cognome, ma siamo persone diverse. Mio padre si chiama Garreth, vive a
Westchester, non ha nulla a che fare con quell’altro. Avete fatto uno scambio
di persona”.
Ci fu un attimo di silenzio.
“Vi prego, signore” riprese poi con tono supplichevole
“Lasciatemi andare, non dirò niente a nessuno, non vi ho visti in faccia, non
ho visto dove mi avete portata, se mi liberate nel parco dove mi avete presa,
tonerò a casa e dimenticheremo questa storia…”.
Ancora silenzio.
“Eh? Va bene?” supplicò ancora.
L’uomo non dava più segnali.
“Signore, siete ancora qui?”
Sentì di nuovo imbavagliarsi la bocca.
“Mi avevi quasi fregato” disse lui. “Stavo quasi per
crederci. Ottima attrice”.
Sotto alle bende, Rebecca iniziò a piangere e singhiozziare.
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